Plasmano la nostra visione del mondo e la nostra identità, definiscono il nostro “valore”. E riguardano anche il marketing che, volente o nolente, si sta rassegnando ad accettare il fatto che non può monopolizzare le conversazioni.
Fateci caso: la maggior parte delle nostre conversazioni è incentrata sulle relazioni, e costruiamo legami con le persone attraverso costanti riferimenti ad altri rapporti.
Lo facciamo quando raccontiamo quello che è successo durante la giornata, rientrando a casa; quando conosciamo una persona per la prima volta; quando ritroviamo un vecchio amico a distanza di anni. Nel dialogo, esprimiamo concretamente una relazione con l’altro persona, ed allo stesso tempo altre relazioni entrano nel discorso, diventando oggetto della conversazione — nutrendola, per così dire, di un’alterità che ne orienta lo svolgimento.
Sotto certi aspetti, questo costante riferimento a ciò che ‘sta fuori’ per affermare ciò che è ‘al di qua’ ricorda una tesi delle fondamentali dello strutturalismo, parzialmente ripresa dalla teoria delle reti e realizzatasi, di fatto, attraverso la diffusione di Internet. Si tratta dell’idea secondo la quale, all’interno di un sistema complesso, gli “elementi non hanno valore funzionale autonomo ma lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive di ciascun elemento rispetto a tutti gli altri dell’insieme”*. Il valore di un oggetto dipende dalla posizione che assume all’interno dell’insieme — e in rapporto con altri oggetti.
I rapporti interpersonali sostengono l’identità, delimitandola e perciò individuandola. La relazione che diventa ‘oggetto’ del discorso definisce chi siamo, riportando ‘al di qua’ quella rete di legami che permette di affermarci, di trovare una ‘posizione’.
È inevitabile che la maggior parte delle nostre conversazioni ruoti attorni alle relazioni. Relazioni di noi-con-gli-altri, di noi-con-gli-oggetti — o più semplicemente con le storie, che non sono altro che gomitoli di dipendenze, opposizioni, somiglianza, differenze.
Relazioni.
E non ne possiamo fare a meno. Rifiutare qualsivoglia tipo di influenza esterna equivale di fatto ad affermarla: è il dilemma dell’alternatività, che ha sempre bisogno di un elemento a cui contrapporsi — e dunque con cui relazionarsi.
Fama, potere, ricchezza…ogni forma di gratificazione è basata sulle relazioni. L’80% della piramide dei bisogni di Maslow si riferisce alle relazioni.
Già: Maslow.
Perché, in fin dei conti, che cos’è il marketing se non un insieme di tecniche e di processi volti a governare e a dare forma a questi particolari rapporti inibendoli ‘alla meta’ (per dirla con Freud)? D’altronde, i prodotti non sono altri che particolari dispositivi di soddisfacimento di questi bisogni, collocati in uno spazio (il mercato) fatto di relazioni.
Eppure a volte ci sembra che creare un rapporto con l’utente significhi essenzialmente guidarlo, orientarlo, dargli una direzione e imprimere nel suo comportamento una volontà esterna, o o a conferirgli un obiettivo — come se si trattasse di un dono. Un retaggio delle teoria ipodermica, mai definitivamente estinta.
Ci sembra che il consumatore vada si compreso, ma solo per poter trarre dal suo comportamento delle informazioni che ci aiutino a farlo andare dove vogliamo noi: l’approccio “data driven“ indica proprio questa pratica. In questo atteggiamento i brand rivelano il proprio intento di costruire relazioni di fatto unilaterali, ovvero che “servono“ ad un particolare interesse (la vendita o qualsiasi forma di conversione) in cui la soddisfazione di ambo le parti è una vuota formalità. Possiamo cambiare i percorsi, possiamo variare i messaggi, possiamo ridefinire la customer journey…ma sempre per arrivare allo stesso obiettivo. Individuato unilateralmente, scolpito nella pietra — l’unico elemento stabile che giustifica qualsivoglia modifica al budget, alla creatività, al targeting.
Si parla tanto di brand personality, ma come giudicheremo una persona che sfrutta ogni interazione con noi per farci fare qualcosa? Come definiremo il carattere di un interlocutore che fa finta di ascoltarci ma il cui unico interesse è quello di parlarci di se stesso?
La domanda è cruciale: desidereremmo instaurare un qualsiasi tipo di relazione con una persona così?
Essere immersi in un cosmo di relazioni significa rispettarne le pratiche e le procedure. In fin dei conti, i principi della persuasione di Cialdini non sono altro che regole conversazionali.
Tuttavia, molti brand sembrano felicemente ignorare questi obblighi. Certo: DEVONO creare relazioni, ma non vogliono; si intestardiscono ad origliare, anziché ascoltare, partecipando alle conversazioni con la presunzione di poterle manovrare a proprio piacimento. Nell’illusione (o nella speranza) che la decentralizzazione anche e soprattutto degli scambi economici sia qualcosa che non li riguarda.
E si torna al tema da cui siamo partiti, quello della relazione che diventa oggetto di un conversazione. Un processo che viene qui ostacolato in tutti i modi, per cui il consumatore, messo spalle al muro, viene candidamente invitato ad ascoltare — a seconda delle circostanze — chi ne sa di più, chi fa pagare meno, chi è più simpatico, educato, irriverente, empatico.
Stando in silenzio.
Nonostante l’ostinazione (ed i budget milionari), questa pratica si sta lentamente sgretolando. Il Cluetrain Manifesto del 1999 aveva in qualche modo evocato questo epilogo, e a distanza di quasi trent’anni quella ‘profezia’ si sta realizzando.
L’avvento della cosiddetta Content economy, o più concretamente l’affermarsi della figura del Content Creator all’interno dell’iniziative di marketing aziendale, è il sintomo più evidente di questa trasformazione. Le aziende avvertono un crescente bisogno di essere raccontate da altri, di diventare, per l’appunto, l’oggetto di conversazioni ‘autentiche’ (dovremmo dire: vere e proprie). Il content creator è il simulacro di quell’interlocutore che i brand non sono riusciti (o che non hanno potuto) diventare.
D’altronde, in una società “di rete” in cui le connessioni stanno definendo e trasformando sia le relazioni tra gli individui, sia la configurazione delle comunità, è estremamente complesso mantenere in vita qualsivoglia istituzione. Ancorare le pratiche conversazionali a queste stesse istituzioni è una lotta contro i mulini a vento: la decentralizzazione riguarda il discorso — glia attori che vi partecipano, il significato che viene veicolato.
Il content creator (così come gli user generated contents) è il sintomo di un nuovo ‘disturbo’ per cui non c’è terapia. Ma cercare una ‘cura’ implica riconoscere una patologia che, a ben vedere, ha poco a che fare con la progressiva trasformazione dei mercati in ‘conversazioni’.
E così, diventando degli oggetti tra altri oggetti, i brand perderanno la capacità di auto-conservarsi, di mantenersi intatti di fronte agli spostamenti degli altri elementi del sistema.
Nessuna direzione da imprimere, nessun obiettivo scolpito nella pietra. Non più — ma oggetto manipolato e manipolabile, plasmato di volta in volta dalle mani dei suoi fruitori.
In linguistica, questo fenomeno è reso possibile da quelli che vengono definiti gli atti linguistici individuali, i quali trasformano la lingua nel corso del tempo. Perché anche la lingua non è un’istituzione che resta immobile immutata in eterno, ma un oggetto che più di tutti gli altri è quotidianamente manipolato dai parlanti, e non cambia perché cambia il mondo o perché gli oggetti si trasformano; piuttosto, la sua trasformazione procede parallelamente a quelli. È uno spazio aperto, meta e fonte di contaminazioni. Luogo di relazioni.
Proprio come quello che ancora chiamiamo “marketing”.
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